Il blog per raccogliere la storia della ristrutturazione della "Cà d'la Lunga" a Corteranzo, con foto, idee e documenti utili per chiarire cosa vogliamo realizzare.
La Nena non è come i grillini e ieri non ci ha deluso, passando il traguardo dei 74 in scioltezza! Che fenomeno: tanti auguri da tuo figlio!
Ecco Elena ritratta con la nipote preferita Elisa.
Ed ecco il duo dei nipoti FrancoEmilio in un ritratto di grande cifra stilistica. Il quesito è: chi dei due è mezzo svedese?
I medesimi con le rispettive madri che si sono rifiutate di prenderli in braccio!
Secondo ritratto di zia e nipote in grande forma.
Ed ecco finalmente il trio dei tre fradéi Carena.
Che fotogenici!
Ed ecco la Ceciona bella, comparabile solo ad una rosa.
E infine una scena nella casa di Elisa con l'arrivo della torta: Michelone Oberdan sullo sfondo e il sottoscritto che fa l'unica cosa utile: versare il vino.
Ecco un nuovo sito che propone un Monferrato turistico: questa volta aggressivo e giovane ... fa pensare al Monferrato come un paradiso dello sport.
Ma con foto di mountain bike sulle Dolomiti. Ma con rumorosi e dannosi (per i sentieri) quad. Ma con giochi basati sulle militaresche paintball.
Inoltre propone l'idea di fare "formazione di team building" per aziende. Una proposta innovativa e straordinaria! Comunque è vero, anche il turismo aziendale potrebbe essere una opportunità, specialmente verso Casale. Ma non chiamiamo team building formazione. Diciamo "una giornata di divertito cazzeggio con i colleghi". Ma tant'è, la formazione è comprata un tanto al kilo, quindi non formalizziamoci.
Eccellente la proposta del sito relativa al benessere, che fa riferimento all'agriturismo alle Cave di Moleto e al bel resort Cà San Sebastiano. Moleto è un villaggio incontaminato dalla modernità, rimasto fermo al 1700.
In ogni caso, proviamoci e tanti auguri, tanto il 2015 è solo tra un anno e mezzo e non abbiamo ancora combinato nulla.
(Zama non rompere...)
Ma chi ha tagliato l'erba bagnata e allettata attorno al giardinetto con la falce?
Chi ha pulito tutto il giardinetto dalle erbacce cresciute a dismisura?
Almeno ci ho provato!
Nonostante lo splendore del filadelfo, questo è il maggio più freddo dalla fine del 1700... la casa lo avrà ben riconosciuto: infatti era calda e per niente umida, mantenendo fede alla sua salubrità. Chiuso il riscaldamento definitivamente (era già al minimo) e passato alla funzione estiva ho scoperto che per 20 gg il nostro sciacquone ha scaricato acqua: chissà la bolletta! Ma soprattutto chissà chi l'ha lasciato aperto! Un pensiero riconoscente ed affettuoso.
La rosellina della bisnonna sta crescendo vigorosa ed è già piena di boccioli.
Le rose della facciata sono piene di fiori, ma penso che la prima fioritura si sia esaurita. La cosa bella è che sono sanissime e totalmente prive di afidi e di oidio (trattamenti assai efficaci!). Oggi Gabriele Calvo mi ha spiegato che è possibile trattarle con senape (!) e olio vegetale con ottimi successi contro le crittogame: sono entusiasta e penso che dovrò fare altrettanto. Il Delinat Institut fur oekologie lo ha pubblicato quest'anno: http://www.dc.delinat-institut.org/merkblaetter/pflanzenschutz/2013/italienisch/oidio2013.pdf
Infine, gli ultimi acquisti in saldo di Ale (il gallo e il cesto per la legna) si integrano benissimo nell'ambiente di casa. Che bello.
Certo che - venendo via - mi si è stretto il cuore, neanche lasciassi la casa per una vita. Ancora una settimana e saremo già qui!!!
Finalmente, all’altezza della croce “dei due cavalieri”, il
medico, dopo essersi voltato rapidamente verso la donna, per verificare che
fosse lontana, ruppe il silenzio, ma con voce bassa: “Ma
la sàra pas 'na Masca?”.
La croce com'è oggi
“Chi? La Lunga?”
Per il disappunto il vassallo squadrò il medico, a sua volta sorpreso da quel
nomignolo famigliare. Allora il conte sorrise della sua ingenuità.
“Orsù Dottore!” a voce bassa quasi scongiurò il Conte “Non
dica di queste cose, al giorno d’oggi! Sono appena scomparsi i segni dei roghi
delle streghe del secolo scorso e lei le vuole fare ritornare? Siamo nell’era
della ragione! Dot-to-re!”
Di masche, o streghe, si è parlato a lungo a Corteranzo.
“Ma Signor mio, quello che ha detto è sorprendente! L’esattezza
delle sue indicazioni era im-pres-sio-nante!” scandì il De Polis. “Sono le
cose che dice il Donzelli nel suo "Teatro Farmaceutico Dogmatico e
Spagirico"; il Durante, farmacognosta, nel suo "Erbario Nuovo". Anche la recente "Lista Rerum
Petendarum" della città di Roma e il Lancisi, archiatra… come può una
misera contadina conoscere i misteri della medicina e della farmacopea più
illustre …”
“Su, su, avanti mio caro Dottore, si rassegni. Per la
fortuna della povera gente esistono ancora di queste donne che conoscono le
proprietà delle erbe. Per questo l’ho portata qui, ma non immaginavo che fosse
così corretta nelle sue indicazioni”.
“Eccellenza, quella non sa, potrebbe somministrale erbe
pericolose, che la potrebbero condizionare, come lo Stramonio, o peggio,
perniciose per la sua salute, non si fidi …” perorò la sua causa il De Polis.
“Basta, Monsù De Polis. Non mi esasperi con i suoi timori… l’ho
chiamata io e non mai assunto nulla dei decotti di Fina, perché mai - fino ad
ora - mi aveva portato nulla del suo erborizzare. Se Serafina è così brava, la
sfrutti, si faccia raccogliere da lei la materia per preparare i medicamenti.
La nostra gente si è curata così per secoli e non si può essere sbagliata”
sbuffò il Conte, annoiato dai timori dello Siensià
che si era scelto.
La rassicurazione e la contemporanea sua irritazione
frenarono la lingua del timoroso Medico.
“E’ un’ottima idea, eccellenza. La ringrazio della offerta.
La donna mi sarà di grande aiuto per raccogliere, essiccare e … ”.
“Pfff…
essiccare: Monsù, l'haj vist 'ntè qu’a la
stà quela poeuvra dòna cun al sò fije?” il passaggio al dialetto segnavaun passaggiod’umore. E il medico tacque.
Passando sotto l’arco della mura, si voltarono un’ultima
volta per guardare da lontano la cappellina quasi giunta al colmo. “Speriamo
che prima dei temporali di Agosto sia finita” commentò soddisfatto il Conte
guardando la meraviglia del paesaggio del suo contado e il suo popolo
adoperarsi attorno alla fabbrica e nelle campagne: genere umano.
L’uomo, che con piccoli gesti quotidiani ripetuti consapevolmente
e con pazienza, concentrati verso un fine, continuamente migliorati, avevano
modellato quelle colline, con le vigne secche a disegnare bande di verde e di
ocra. Girasoli gialli. Verde scuro medica. Verde chiaro meliga e il mare viola
del lino, laggiù alla sua sinistra. Tutto suo. Ancora una volta, si commosse al
pensiero che ce l’aveva quasi fatta. “...
Ma quanto sarebbe durata? Chissà, un futuro, un futuro senza guerra, senza
malattia, senza fame. La povera gente che lavora e che riesce a campare
del suo. Dio, dammi la forza di cambiare le cose, fammi contribuire alla
bellezza del tuo creato, illuminami”.
Il Dottore interruppe la sua preghiera “Certo che, con la
fornace dei mattoni attiva… si potrebbe ampliare il paese … Guardi il viottolo
e immagini: a sinistra una fila di cascine per i vignaioli, con finestre ad est
e ovest,illuminate tutto il giorno, con le cantine. A destra una mura per
mettere in piano la sella. Le case e le stalle per il bestiame, per traverso,
per fare circolare l’aria, e con facciata a sud, calde anche d’inverno”. Il
Conte non contenne l’ammirazione per quella idea.
“Ha ragione Monsù … potremmo costruire … 1, 2, 3” con la
mano traguardò la collina in moduli da circa 12 metri, da buon agrimensore “… cascine
solide, asciutte, sane, appoggiate sul tufo, fino al Rivasso” Si fermò. “Ci
potrebbero vivere 12 famiglie, non meno di 50 lavoranti, 8 coppie di buoi,
potremmo dissodare e coltivare fino a Cortiglione e a Sant’Antonio”. Ristette,
con il pugno sul mento e sorrise.
“E l’ultima sarebbe la più bella delle Cascine, davanti alla
cappellina” Suggerì il medico.
Contadini e buoi, muratori, cavalli e cavallanti si
affollavano sul tratturo, scappellandosi e inchinandosi davanti al loro
signore, se non amatissimo per il suo brutto carattere, rispettato e oggetto di
molte speranze per il benessere del villaggio. Tutto il loro orizzonte di vita.
Un orizzonte apparentemente angusto, un paesino, un piccolo agglomerato di case insignificante,
posto sopra un vallo della Val Cerrina. Il Dizionario corografico deli Stati
Sardi lo avrebbe descritto così “Corteranzo,
comune del mandamento di Montiglio da cui dista un’ora e mezzo, popolazione
227. Sta sulla vetta di un alto colle, alla sinistra dello Stura, il territorio
produce cereali e uve abbondanti. Questa terra e il suo castello fecero parte
dell’antico contado di Vercelli”. Un secolo dopo la costruzione di San
Luigi, il Casalis avrebbe scritto: “Sta
sulla vetta di un alto colle in distanza di sedici miglia a ponente da Casale
tra il Po e lo Stura orientale ed alla sinistra di quest’ultimo fiume. Le vie
che scorgono all’elevato colle, sulla cui cima sorge questo paese, e quelle che
di qua mettono ad Odalengo grande ad Odalengo piccolo, e ad altri circonvicini villaggi,
sono praticate con qualche difficoltà nell’invernale stagione. Il territorio
produce in discreta quantità fromento, granturco, marzuoli ed uve in
abbondanza. ll vino vi riesce per lo più assai buono e vendesi principalmente
nelle città di Torino e Vercelli. I terrazzani mantengono tanto bestiame bovino
quanto è necessario a far prosperare l’agricoltura. La parrocchiale con titolo
di rettoria fu dedicata a S Martino. Degno di qualche riguardo è un tempietto,
che vedesi alla distanza di cento metri dall’abitato, è sotto l’invocazione di
San Luigi Gonzaga … gli abitanti sono robusti, affaticanti e pacifici”. E
infatti i robusti e pacifici abitanti si affaticavano
per il loro signore nella costruzione del tempietto, lungo quel sentiero.
Dopo qualche decina di metri, sotto la cima della
collina alla base di San Martino, dove una volta c’erano le rovine della torre
del castello medievale, piegarono a sinistra per la strada principale,
ripercorrendo l’anello dell’antico recinto murale.
(Secondo movimento del concerto per Liuto. Non la migliore interpretazione in assoluto, ma la migliore su Youtube, ed eseguita con un signor Chitarrone o Liuto attiorbiato.)
Passo dopo passo, erano quasi giunti , percorrendo il
viottolo in leggera salita, al colmo della sella. La donna era rientrata nella
casupola ed uscita con un involto di lino; da svelta che dapprima si muoveva,
prendendo la direzione perpendicolare al viottolo e al tragitto del conte, ora si
era fermata, incerta, e a capo chino aveva percorso il breve tratto che la
separava dai due cavalieri, fermandosi a rispettosa distanza.
“Ciarea
Serafina, ven dausin, 'me qu’a và?”
La contadina aveva alzato gli occhi, ma incontrando lo
sguardo del nero compagno che accompagnava il suo signore, ristette, ribassando
la testa.
“Sta
tranquila, l’è l’me dutur … ven … ven!”
Ma la riassicurazione diede l’effetto opposto: un’ombra di
terrore si dipinse sul viso della contadina, fece un passo indietro, come per
scappare.
“Frama, Fina!
Ven qui. Qu’a qu’a iè?” Scattò l’ordine. Suo malgrado la contadina si
avvicinò lentamente a testa bassa. E sempre a testa china parlò.
“Mè
S'gnur, buon S'gnur … Çuilì l'è par chil” e gli porse l’involto, questa volta
alzando il viso, con un gesto insolito per la servitù. La donna era grande
vista da vicino, la testa arrivava al garrese del norico del conte. Ben più
alta di un uomo, più di 6 palmi, spigolosa. Le mani che tenevano il fagotto
candido erano grandi e nodose; mani di donne che lavorano nei campi, ma erano
pulite, come pulito era il viso abbronzato, notò il dottore, con quel colore
dorato dei biondi: attorno agli occhi piccole rughe, da donna matura, ma la
pelle non era ancora rovinata. Il dottore stimò che avesse circa 30 anni: una
donna ormai fatta, anzi una vedova, da quello che aveva appreso. Serafina aveva
gli occhi grigi-azzurri, un po’ incavati di quelli che sanno cos’è la fame. Ed
erano occhi tristi.
Il grosso involto emetteva un fruscio e crocchiò tra le
grosse mani del Conte, che capì e lo portò al naso, aspirando con avidità. “Ah, Fina, bùn!”.
Voltandosi leggermente verso il dottore, il Conte aprì
l’involto e dentro trovò quattro sacchetti più piccoli, cuciti con filo grosso.
Tirando con l’indice la chiusura di un sacchetto comparvero foglie e fiori
secchi.
“Biancuspin,S'gnur.
Ne fass n'infus a la saria quan ch'al disa al rusari” All’idea di
dire il rosario al conte venne da sorridere.
“Qu’a qu'al
serva?”
“Quand che la noeucc at venn 'l fiatun e la
'gitasiùn, S’gnur”.
“Ma…!” Esclamo il dottore più sorpreso dalla precisione
della contadina che dall’offesa al suo mestiere, ma un taglio rapido della mano
del Conte verso di lui lo mise a tacere istantaneamente.
“E 'si qui
qu’a qu’a jen, Serafina?”
“Frasu, S’gnur,
e qu’la pianta bianca, betùla: para la gotta. Par piela al matin quand chi suna
l'campanun ad San Martin”.
“E Tillio”
conoscendolo bene il conte non ebbe dubbi, e tirando fuori il
sacchetto ne aspirò il profumo dei fiori seccati a perfezione dalla contadina.
Un ricordo di infanzia, di prima estate, di corse con i cani nel viale di tigli
della villa dov’era cresciuto, lo prese al cuore.
“Si, S’gnur
Conte, par droemi ben … che la Madonna, nostra S’gnura, prutegia al sogn”.
E fece un inchino, tirando la gonna e con l’altra indicando la grossa pianta di
tiglio alle sue spalle, ronzante di api, di bombi e coperta di brattee gialle
con i frutticini ormai secchi di luglio. Il tiglio frusciò leggermente ad un
colpo di vento , come per rispondere al saluto della sua cultrice. Il tiglio
era a quei tempi spesso associato al culto della Madonna e Serafina lo teneva
in gran conto per le sue proprietà, il suo profumo e la meravigliosa ombra che
faceva su quella sella secca ed esposta al sole.
“Serafina…”. Il conte non ringraziò e si trattenne dal
farlo, perché sarebbe stato sconveniente per i rapporti tra due persone di ceti
così distanti. Ma lui si sentiva il padre di quella gente e il tono del suo
riconoscimento voleva che giungesse esattamente come un grazie. Così, dal
panciotto trasse una piccolissima moneta che le diede ponendola sulla
mano che prontamente la grande donna gli tese. E così, la donna, finalmente,
sorrise: il viso si era illuminato e gli occhi erano brillanti di felicità.
Pane, abiti, chissà cosa voleva dire quel piccolo tondo. Accostando le mani al
corpo si fermò con i palmi raccolti sotto il viso, che manteneva fisso sul suo
padrone.
Occhi troppo fermi. Troppo chiari.
Lo sguardo mise a disagio il Conte.
“Vai Serafina, e portamene altre”. Bruscamente il
Conte spronò il cavallo, non sapendo più che dire e in imbarazzo per quella
felicità. “Il popolo è senza senno, senza
sentimento, senza memoria, piagnucoloso, ringrazia per forma, ma ti sgozzerebbe
nel buio. Si getta sul denaro, si ammazza. Senza misura” Annotò mentalmente
il conte “Lei no. Donna strana”. E
rimuginò in silenzio, seguito dal trasecolato dottore. (Segue)
“Lei ha mai letto
Voltaire, Monsù?” Il Conte rivolse di nuovo i suoi occhietti pungenti sul
frastornato seguace di Ippocrate, con una punta di malignità. “Ateo! Anche custa!”
Capitolava così, al De Polis, ogni capacità di elaborazione di un commento.
“Si, il Signor Voltaire, dicevo, dice bene che queste guerre
per il diritto successorio di casa D’Asburgo e la bella sceneggiata di Carlo
VII Imperatore - ce ne importasse qualcosa di Alberto di Wittelsbach, nuovo
Imperatore del Sacro Romano Impero” Motteggiò il Conte piegando la testa,
sollevando le sopracciglia e tirando la bocca in basso “… porta più morti in
Europa che l’ultima peste, per Dio! E chissà quali danni faranno i Francesi
quando decideranno di valicare le Alpi per inseguire il Carlin alla conquista
della Lombardia! Cristu!”. E giù una manata sul pomolo della sella.
“Ma Signor mio … Eccellenza … Signor Conte …” pregava ormai
il Medico, voltandosi per vedere se qualcuno ascoltava lo sconvenientissimo
fervorino alla sovranità di ogni genere, ordine e grado.
All’improvviso il Conte mollò la preda “La mia povera terra
…”: chinò il capo quasi pensando tra sé e sé, incupito, mentre con un sospiro
il De Polis constatava che la tempesta andava allontanandosi rapidamente così
come era arrivata. Per qualche istante i due cavalli presentarono una totale
indifferenza equina al problema. Nel silenzio del cranio allora il medico computò
“La Malinconia costituisce l'inizio della
Mania e ne è parte integrante. Lo sviluppo della Mania rappresenta un
peggioramento della Malinconia piuttosto che il passaggio ad una patologia
differente… mirabile Areteo di Cappadocia, Sulle Cause ed i Sintomi delle
Malattie Croniche, Libro I”. Ricordò, diagnosticò e sorrise. Aveva vinto
l’incertezza. Diagnosi fatta.
“Disturbo bipolare” esclamerebbe un medico oggi.
Ma resosi conto del silenzio imbarazzante calato tra lui e
il Conte – e per cambiare discorso - cercò di tornare a sondare le convinzioni
chiesastiche e religiose del nobile: “San Luigi, bella idea! Una bella figura
di giovane devotissimo …”
“Si Dottore. Una persona ammirabile. Studioso, aperto,
generoso. Morto per avere aiutato per davvero i poveri e i malati. Mica
storie. Pecà ch’al fissa in Gisuita”
Tra le molte invettive del Conte questa era attesa -
perché luogo assai comune nella nobiltà di campagna - e il medico sbuffò
leggermente in un sorriso, che si permise in quanto leggermente indietro
rispetto al suo signore e padrone. (segue)
“Monsù, quando la guerra, le carestie, i malanni e i banditi devastano le campagne, sospingono i superstiti verso le città, allora si
arriva al disordine totale. Monsù” Con questo chiasmo, il Conte introdusse un
discorso che suonava privo di rapporto con la domanda, mormorato quasi tra sé: il
Dottore infatti lo guardava interrogativo, mentre le cavalcature avanzavano a
testa bassa sul viottolo.
“I contadini ridotti alla fame e privati di tutto
abbracciano la carriera dei criminali e compiono furti ai personaggi più
esposti: parroci, agricoltori danarosi, vedove …”. Continuò il Conte guardando
ancora la capanna. “Certo Signore … certo… E’ il destino di chi corrompe la
propria anima a causa delle sofferenze della vita” Commentò il medico, sempre
più stupito dalla piega dei discorsi del nobile “Prima parteggia per i Gonzaga, adesso per i villani … ”: gli occhi gli si erano
fatti tondi dallo stupore e la bocca era sospesa a bere le parole di
spiegazione che attendeva dal suo nuovo paziente.
“Il contadino viene spogliato di quanto raccoglie dai
baroni, dal clero, dai frati mendicanti, dai governatori, dalle tasse e dai
tribunali, dall'avvocato e dal … e dal …” Si sospese un attimo il conte
guardando di traverso il suo affranto ascoltatore “… e dal medico!” e gli buttò
le parole, voltando rapidamente il viso, con un sorrisaccio e gli occhi
aggrottati, come se lo incolpasse delle ingiustizie del mondo. Il medico si
ritrasse sollevando le sopracciglia di stupore “Oh Signùr, che demòni!”.
La tirata del Conte è liberamente ispirata alle Descrizioni di Giuseppe Maria Galanti
“Caro Dottore ... un panno grossolano e una camicia di
canovaccio formano tutto il suo vestire! Un pezzo di pane di granoturco, una
minestra di cavoli condita di sale, vino cattivo di cui fa un uso eccessivo,
ecco tutto il suo pranzo! Un tugurio meschino e sordido come quello, esposto a
tutti gli elementi, forma la sua abitazione!”. E preso dalla foga del discorso slanciò
il braccio verso il ciabòt.
“Vive in perpetue angustie ed oppressioni! Molti sono coloro
che abbandonano questa vita di inferno per darsi a furti e rapine...” si interruppe
ancora il Conte che si era fatto rosso in faccia.
E continuò:
“Dutùr! - e con dita strette ad anello batteva ogni singola parola - Questo
inverno ho visto accoppare suo marito come una bestia, per strada, perché aveva
rubato un po’ di cibo per le sue figlie” Aggiunse il Conte, con sdegno, ma
sottovoce si inchinò pericolosamente dalla sua cavalcatura per farsi sentire
dal medico, ancora più violetto dall’imbarazzo della situazione. Mai nella sua
pacata vita aveva incontrato un nobile più originale di quel grosso Signore
dalle gambe corte e dalla pancia tonda. “Per un sacco di avena che neanche un
cavallo l’avrebbe mangiata. Bah!”. Ribadì con rabbia il Conte.
“Ho difeso quella donna e le sue due bambine da un processo
sommario. Le ho prese con me e portate qua. Non avevano dove andare e sarebbero
finite male o peggio … violate, morte. E il prevosto corso a benedire il morto
non ha alzato un solo dito. Non ha detto una parola per quelle creature che
guardavano il loro padre, giù a terra nella polvere. Puah! I prève! Puah!”.
“Oh Gesù Cristo, par
parlé as na
minera acsì a l'è un bal balangu!”Ripensò il
povero De Polis, spiazzato dai discorsi completamente fuori luogo
e da comportamenti “generùs,par
carità”, ma animati da una polemica fuori da ogni ordine
sociale!
“Per Giove, Signor Conte, non sapevo della sua stima per i
precedenti signori del Monferrato” balbettò di sorpresa il medico di fronte
alla audace dichiarazione politica. “Pueh!
Baciapile” pensò il
Conte, il “preteso flemmatico”. Ma si corresse, meglio non fidarsi, neanche del
medico.
“Ah! Signor mio! Re Carlo con le sue ambizioni ci porterà
ben più lontano dei Duchi” Si corresse con opportunità “Ha ben altra
visione, ben altro spirito, ben altra volontà di emergere! e non sarà così
sventato come i Gonzaga da sparire come - prima o poi - faranno tutti gli altri
staterelli sotto il tallone degli stranieri!” Vaticinò, tirando una gran pacca al
pomolo della sella, come se non fosse stato sufficiente il tono perentorio che
aveva usato.
E – come spesso gli accadeva nei suoi repentini cambi di
umore - con uno sguardo a mezzogiorno verso la chiesa parrocchiale di San
Martino, pensò all’appetitosa lepre vista la mattina in una larga teglia, con
carote cipolle sedano e affogata in una buta
della sua grissa.
“Venga Dottore, venga, torniamo a casa” e voltò il docile
Norico, acquistato da un mercante Walliser di sua conoscenza. Costui gliela
aveva venduto con un banale “Buono cafallo, grante forza di tirare aratro, schöne Lasttier”. Il Walliser, che a sua
volta lo aveva comprato al di là delle Alpi da ladini, era fine e sensibile come
una gnocca di terra secca e non poteva sapere che - così dicendo - colpiva la
fantasia del Conte, eccitata dai discorsi del Weston sulla superiorità dei
cavalli nel tirare l’aratro: ma una volta provato il baio, la sua buona
disposizione, la sua sufficiente nevrilità, la comodità della sua groppa sotto
il suo poderoso deretano, aveva cambiato prontamente idea.
Dopo pochi metri, giunti al punto dove si dipartivano i
tratturi che menavano dalla sella - attaccatura del bel seno di Gaia - ad est sotto il Rivasso, prezioso scrigno di tartufi, e ad occidente al Puss Salà - indegna fonte risorgiva
torbida, spesso causa di dissenterie tra i bambini del paese … ragione che lo aveva spinto allo scavo di nuovi pozzi per la raccolta dell'acqua piovana – il Conte riguardò il
viottolo slargato dal continuo passaggio degli operai in mezzo al campo d’erba
medica, sperimentazione formidabile di rotazione delle colture. A sinistra del campo, una dura sella di arenaria, emersa come la
schiena di un bue, biancastra, cinta a nord, dove la china andava in ombra, da
menta profumata. Su quel pezzo di arenaria asciutto stava un ciabòt, una capanna di contadini
migranti, coperto di paglia.
Una donna, con i capelli legati in una fazzoletto
scuro, vestita di una tunica di canapa ocra, come la terra, con uno scossale -
non privo di eleganza - con una foggia tonda e una fascia alta che la cingeva,
mettendo in mostra una vita non ancora sfiancata dal lavoro e dai figli.
Muovendosi sui piedi nudi, secchi e nervosi, stendeva su bassi alberi di bosso
candide lenzuola ricamate, appena tratte da una larga caldera, con l’aiuto di
una ragazzina in una tunica sdrucita. La donna, oltre a lavorare nelle vigne,
faceva la lavandaia per il Conte e gli rivolse uno sguardo rapido, un sorriso e
un rapido inchino della testa, con una confidenza sorprendente per una umile
contadina.
“Ma chi è, Signor Conte, quella donna?” chiese il dottore,
dopo un attimo di silenzio, incuriosito sia dall’atteggiamento confidenziale,
sia da una ciocca di capelli biondi che sfuggivano alla cuffia.
Scarlatti malinconico e pensieroso per Viola d'amore.
Pensava il Conte: con una ruga di preoccupazione sulla
fronte alta, al di sopra di cespugliose, irsute sopracciglia che gli davano
un’aria temibile.
Proprio in quei giorni la campagna sarebbe stata bellissima
se una nube di timori non si fosse continuamente agitata nella sua mente “E adesso cosa faranno i Francesi?
Metteranno a ferro e fuoco la campagna depredandoci delle bestie, 2000 Tor e bucin d'la coessa, 500 cavaji, 4000
crave, 120 giornà d' tera ad vji, 800 d’tera travaiaia, 80 vasàli ad vin grignulìn,
nebieu e grissa per quel … per quel … per il … re! Un re che si
preoccupa solo di giochi politici pericolosi che fa sui beni di noi nobili e
sulla pelle della nostra povera gente!”. Ah! Che irritazione, che
fastidiosa nube di discontinuità sul suo lavoro! Non paura, non angoscia, come
proveremmo noi, che di guerre non ne abbiamo mai viste. Al contrario, il Conte,
afferrava l’elsa della spada e la stringeva, agitandola, sbattendola contro il
fianco del cavallo, tirandola fuori e infilandola dentro in un nervosismo
pugnace e con sguardo corrusco.
Ma gli occhi del conte si alzarono con amore verso Monte
Castello, colle ornato di vigne, di noccioli, e nelle rive a nord di cerri
tartufigeni - per il naso capiente ed esperto d’aromi del loro padrone - e di
profumatissime gaggie americane spinose. Il colle era come una gran tetta della
terra tonda e ben proporzionata, eretta verso il cielo, segno di bellezza e di
ricchezza di quella plaga del Monferrato nominata Corteranzo, già antico
castello e allora villa patrizia, contea.
Alla attaccatura del gran seno, come un gioiello che un
tempo aveva ornato la deliziosa poitrine
di una damina di 17 anni, Mariéta - conosciuta e sposata 30 anni prima e
compianta da 5 - il Conte aveva voluto la cappellina, non voto per il recupero
della salute, ma come ringraziamento per avere rivisto il contino tornare dalla
campagna di guerra con un solo sfregio nel braccio e un mascolino graffio nel
viso, frutto della stessa spada, parata con efficacia in un duello con un gran
cavalieraccio tedesco così ubriaco, bianco e porpora da assomigliare ad un gran
formaggio di vacca affinato nella vinaccia.
“Capisce Signor De Polis? Non è per me, che ho 53 anni e ho
già cavalcato tanto, se non troppo. Non è per me, mi creda, la cappellina. Non
si dona per chiedere a Dio, si dona per ringraziarlo della sua infinita bontà”.
“Oh, Signor Conte” rispose il nero dottore, agitando il
fazzoletto usato per detergersi dal sudore della fronte e allontanare un tafano
testardo “non me ne voglia, non me ne voglia, mi perdoni se ho usato parole che
volevano solo compiacerla …”
“Monsù De Polis … Signor De Polis, non si faccia dei
problemi, l’ho capito” Lo interruppe il conte con un sorriso sotto i baffi
incerati a ricciolo – il medico con il suo impacciato tentativo di piacergli lo
rallegrava – “sono un umile gentiluomo di campagna, ma conosco il genere umano
e distinguo le intenzioni delle persone!”.
“Oh, la ringrazio, Sua Grazia, la ringrazio della sua
bontà …e - emh emh - a chi la vorrà dedicare?” “A San Luigi, monsù De Polis, A
San Luigi Gonzaga” e un pensiero di affetto andò all’antico casato dei Gonzaga
che aveva rafforzato la sua famiglia su quella terra. “Eh! I Gonzaga, non erano solo
santi: ma gente pratica, allevatori di cavalli, gente con i piedi per terra,
imitatori di nessuno, protettori della arti, costruttori di Casale … gente
coraggiosa, se non fosse per quel piciu
di Ferdinando Carlo!”, come usava dire dell'ultimo Duca di Mantova e del Monferrato, più appassionato di cavalli e di donne che di reggere i suoi potentati.
Pensava, il Conte. Pensava forte e con ingegno sano e
pratico: leggeva testi di agronomia. Giovanni Battista Croce "Della eccellenza e diversità dei vini
che nella Montagna di Torino si fanno e del modo di farli", ma
soprattutto gli inglesi, come Sir Richard Weston “A discourse of husbandrie used in Brabant and Flanders” che gli
rivelava i segreti della rotazione delle colture, il metodo Portland, gli
aratri di ferro. E naturalmente Columella e Jean Liebault, suo umanistico
commentatore e il suo contemporaneo Abate Montelatici, fondatore della
Accademia dei Georgofili. “Ah, verrà un
giorno che la terra darà ricchezza e renderà come un banco di cambio” Si
fregava le mani, goduto … perché guardava con indubbio interesse al reddito
della sua terra, ma si inteneriva a vedere seminare, si inorgogliva a vedere
come il trifoglio ingrassava il terreno a beneficio del frumento, si commuoveva
di fronte al viola color del lino che cresceva ricco a fondo valle con la
canapa. Il lino - “linum
u-si-ta-tissimum!”, ne scandiva il nome fonte della sua ricchezza - si
inchinava sotto il vento di maggio a fondo della valle Cerrina, ad entrambi i
lati dello Stura, disegnando onde di un mare liliaceo. Coltura per la
produzione di fibre tessili: vendeva a Torino il lino e a Genova la canapa, per
le sartie e le vele dei vascelli.
E gran parte di quella ricchezza il Conte impegnava,
profondeva con entusiasmo nella realizzazione di nuove vigne. Non vite maritata
al gelso, mirabile simbiosi, ma vite avvinghiata a pali e pergole, con infinto
lavoro di pazienza da lui stesso inventato, con pali di castagno.
E spendeva in libri: aveva appena ricevuto dopo molti mesi
una copia preziosissima della “Metamorphosis
insectorum Surinamensium” di Maria Sybilla Merian, che studiava per ore,
seguendo con il grosso dito i dettagli infinitesimi dei fiori e degli insetti. “Cosa è mai la natura”, mormorava tra sé
pensando alle Americhe lontane.
Ma tutto il suo pensiero era dedicato a come fare crescere
il contado “Il lume della ragione dovrà ben inondare questa terra benedetta del
Monferrato”, mentre Re Carlo Emanuele rischiava l’osso del collo del regno
di Sardegna sotto la minaccia dei francesi, per compiacere all’imperatrice
Maria Teresa in un rischioso gioco di equilibrio tra le grandi potenze.
Accadeva proprio in quei lunghi giorni di inizio
luglio, in quei giorni asciutti, dal cielo limpido, solcato da nubi sottili,
con tramonti struggenti verso il Monviso, grande piramide d’occidente,
stagliata contro l’occaso rosso e viola e arancione.
Correva l'anno 1742 e lungo la via si allineavano i cantieri delle case contadine progettate a seguito della costruzione della preziosa cappellina di San Luigi da parte del grande architetto Bernardo Antonio Vittone.
Purtroppo, proprio in quell'anno moriva Vivaldi e Goldoni dopo aver scritto la Donna di Garbo, fuggiva da Venezia rincorso dai debiti.
Che atmosfera c'era a Corteranzo? E in Piemonte, in una Italia divisa in staterelli vittime dei grandi regni europei?
Mi sono immaginato qualcosa.
Quello che scriverò non ha nessun fondamento storico, e ogni riferimento alla famiglia Giunipero è solo una occasione narrativa: il "Conte", per come l'ho descritto, non è mai esistito. Ma avrebbe potuto.
E ringraziamo questa famiglia per i doni che - nei secoli - ha fatto al territorio.
Ogni altro riferimento a persone e cose presenti e passate è puramente casuale. Ma potrebbe esserci.
Lanciate il concerto per Mandolino e fatevi un'idea.
“Linfatico”, pensò
il Signor De Polis, il neo nominato medico curante del Conte. “ E per di più nato di giugno, del Cancro: avvinghiante,
possessivo, timoroso per il futuro … e che visu caratteristico!”
Il conte si alzò sulle staffe per guardare meglio gli operai
sollevare le travi per la costruzione della lanterna della cappella votiva: il
conte aveva un viso quadrato, incorniciato da un ampio cappello estivo di
paglia a tesa larga, adornato da lunghe piume di pavone. La pappagorgia si adagiava sul colletto ampio e ricamato, ormai bagnato di sudore
nella giornata di luglio.
“Fa
tansiùn qu’a man custa 'me tuta la campagna, fieu d’un aso!”, urlò
con malagrazia al capomastro e alla sua squadra.
“Scheletro solido,
buona dentizione, mani quadrate con dita corte e massicce” continuava a
ripensare nella sua diagnosi il De Polis – “Il
soggetto è molto alto, ma gli arti sono corti”.
In effetti il Conte-
largo di spalle, ma profondo di pancia … di una pancia tonda e ubertosa,
prova di un appetito raffinato e non saziabile con la polenta dei suoi
contadini - aveva le gambe un po’ corte
rispetto al busto, ma aveva di molto modificato l’altitudine della sua visuale:
ritto a un metro e ottantacinque sulle staffe del suo gigantesco cavallo
Norico, più adatto a lavorare nei campi che a portare un nobile, aveva
provocato un sospiro della umile, ma scultorea bestia, sotto i suoi 120 chili.
“Dunque Signor Conte, complimenti per la sua devozione: Dio
le renderà merito e … tutti i suoi pari le riconosceranno un gesto di grande
merito per la Chiesa e per l’onore delle colline del nostro Re Carlo Emanuele
terzo di Savoia!”.
“Aaah, Carlìn … Qu’a'l
signur at cunserva la vista” masticò tra i denti il Conte ancora in
dialetto, poi - rivolgendosi al medico nerovestito – aggiunse con solennità ed
orgoglio “Signor De Polis … lei deve sapere che ho scelto anche il giovane
architetto del re, il Vittone, per compiacere alle preferenze e ai consigli di
sua Maestà” “Ma al Signur sa vare qu’a la
custà a mi”, commento tra sé, tornando al dialetto, che rendeva meglio
quando si trattava di parlar di soldi.
“Oh certo! E il Signore le riconoscerà senz’altro maggiore
salute per il suo dono” aggiunse il dottore, provocando un convulso gesto
apotropaico del nobile. Questa volta il medico ebbe la netta sensazione di
avere fatto una frittata diplomatica con il suo datore di lavoro e –
terrorizzato – si chiese perché, ripetendosi le parole appena dette.
Il Conte colse l’occasione per aggiustarsi il cavallo dei
pantaloni, si arricciò i baffi, squadrò
l’imbarazzato compagno e poi scandì: “Ah! Signor De Polis!” con sospensione, stringendo
gli occhi. Poi proseguì “Lei deve sapere – e lo tenga ben presente - che non ho
nessuna intenzione di farmi fare salassi, che mi fanno schifo le sanguisughe. Ma
ho sempre il ventre gonfio e spesso forti dolori attraverso l’inguine durante
la notte. Mi sveglio di frequente per orinare, con licenza parlando”. Vista
l’improvvisa apertura anamnestica, il dottore si rilassò un poco.
“Oh, Signor Conte non si faccia scrupoli a dirmi le cose
come stanno, è fondamentale per una corretta diagnosi.”
E non potè fare a meno di annotare mentalmente “Il soggetto presenta la predisposizione a
patologie dell’apparato digerente in quanto tende ad abusare del suddetto
organo, ed è quindi predisposto ad ingrassare. E sicuramente soffrirà di
gotta”.
“Sì. E poi sempre più soffro alla gamba destra, come se
mille spilli me la penetrassero … dopo
una giornata in sella non sono quasi più in grado di camminare … lei deve fare
qualcosa. Quel vecchio rimbambito di monsignor Battia con Galeno, Senocrate di
Afrodisia, Abascanto e Mnemone mi ha fatto … mi ha fatto …”
Il Conte si era interrotto da rincorrersi di “Bon!” - “Boon!” - “Booon!”
all’indirizzo del nariciuto e gozzuto conduttore di buoi, che con un sistema di
carrucole e un paranco sollevavano un trave di pioppo fresco del diametro
maggiore di almeno due spanne.
“Du bàli!” scattò
roggendo il Conte all’indirizzo degli operai “… Ma Cristu! … Ste atènt” mentre calcinacci e mattoni crudi
cadevano dal colmo del timpano della bella chiesetta, ma nessuno si era fatto
del male.
“Per Giove! Ma il
temperamento è in vero sanguigno” trasecolò il dottore.
Con questo, si interruppe il colloquio diagnostico del
Signor De Polis con il supposito flemmatico
Conte di Corteranzo nel luglio del 1742.
Infine, dopo lungo cercare e confrontare dal razionalismo autarchico dell'Ikea, all'edonismo estetico e caro di Maison du Monde, per passare per l'eleganza shabby del Tempo abitato ... abbiamo trovato la soluzione in Arte casa di Casale, che con una cifra del tutto abbordabile e supercompetitiva ci ha fatto prendere due - ben due - librerie, per uno sviluppo di quasi 3,5 metri lineari, con colori e patine scelte da noi!
Nel salottino verde - o delle penniche - abbiamo scelto una libreria grande, dello stesso colore delle porte, dove abbiamo predisposto anche la possibilità di inserire un televisore, quando mai ce ne verrà voglia.
L'ambientino ci ha guadagnato in calore: ecco l'Alina che si scatena a fotografare con l'iPhone per postare su faccialibro. Io invece ci ho guadagnato un posto di lusso dove mettere: la Treccani vintage che mi ha regalato Liliana, la mia prima enciclopedia che mi hanno regalato i miei genitori (una enorme Universale De Agostini), la raccolta completa delle opera di Montale, sacrificio sempre di Liliana e i miei più amati libri di studio: Entomologia, Botanica, Agronomia generale e Agronomia Speciale. .
In mezzo un quadro preso da "Di mano in mano", una natura morta fatta con una tecnica mista tempera e pastello a cera, molto molto bello, un po' Morandiano.
Invece in camera da letto abbiamo messo una libreria più piccola e semplice, anche perchè c'è la stufa che pretende almeno 60 cm di rispetto, per il calore che caccia.
Anche lei si integra bene nell'ambiente un po' nordico della camera da letto.
E l'angolino di lettura dell'Ale è bello e finito.
Insomma, un bel posto dove vivere. Sempre pronti ad un vino vecchio e ad un nuovo libro.
Spazio per i libri ce n'è: adesso devo decidere come dividerli tra Milano e Corteranzo.
Le roselline del Luigi Francia, fanno ormai bella vista sulla facciata della casa che si asciuga da un lungo inverno e un lunghissima primavera piovosa. Il caldo della parete ne favorisce lo sviluppo e le vasche, anche se non sono molto ben drenate, fanno il loro dovere.
In realtà sono una convivenza tra una rosa canina rossa e crema e una clematide dai grandi fiori viola.
Non si sa perchè, ma la pianta di sinistra svetta di più,
Mentre quella di destra si è allargata fin dalla base: penso che ci sia una differenza di micro-micro clima-
In effetti quella di destra è piena di boccioli ...
E la Clematide sta già fiorendo a pieno ritmo, con inquietanti, enormi, bellissimi fiori viola.
La Clematis Vitalba è persino buona da mangiare, ma questa è uno spasso, con fiori larghi 10 cm, resistentissimi (il primo fiore in basso è fiorito da tre settimane e non è ancora appassito).
Charles R. Darwin, nel suo libro "On the Movements and Habits of Climbing Plants" (1875) era rimasto affascinato di come la Clematide si arrampica e la ragione è semplice: esiste una evoluzione intraspecifica del "modo" di arrampicarsi. Ogni clematide ha trovato il suo. La mia usa proprio le foglie più piccole che - come piccole manine - si arrotolano attorno al supporto del fusto e dei rametti della rosa per conquistarsi un vero e proprio posto al sole. E' troppo simpatica, anche se assomiglia alla pianta carnivora della "piccola bottega degli orrori". Ne sarebbe stata però felice la vecchia Maria Sybilla Merian, grandissima pittrice di natura, prima reporter della moderna botanica.