Scarlatti malinconico e pensieroso per Viola d'amore.
Pensava il Conte: con una ruga di preoccupazione sulla
fronte alta, al di sopra di cespugliose, irsute sopracciglia che gli davano
un’aria temibile.
Proprio in quei giorni la campagna sarebbe stata bellissima
se una nube di timori non si fosse continuamente agitata nella sua mente “E adesso cosa faranno i Francesi?
Metteranno a ferro e fuoco la campagna depredandoci delle bestie, 2000 Tor e bucin d'la coessa, 500 cavaji, 4000
crave, 120 giornà d' tera ad vji, 800 d’tera travaiaia, 80 vasàli ad vin grignulìn,
nebieu e grissa per quel … per quel … per il … re! Un re che si
preoccupa solo di giochi politici pericolosi che fa sui beni di noi nobili e
sulla pelle della nostra povera gente!”. Ah! Che irritazione, che
fastidiosa nube di discontinuità sul suo lavoro! Non paura, non angoscia, come
proveremmo noi, che di guerre non ne abbiamo mai viste. Al contrario, il Conte,
afferrava l’elsa della spada e la stringeva, agitandola, sbattendola contro il
fianco del cavallo, tirandola fuori e infilandola dentro in un nervosismo
pugnace e con sguardo corrusco.
Ma gli occhi del conte si alzarono con amore verso Monte
Castello, colle ornato di vigne, di noccioli, e nelle rive a nord di cerri
tartufigeni - per il naso capiente ed esperto d’aromi del loro padrone - e di
profumatissime gaggie americane spinose. Il colle era come una gran tetta della
terra tonda e ben proporzionata, eretta verso il cielo, segno di bellezza e di
ricchezza di quella plaga del Monferrato nominata Corteranzo, già antico
castello e allora villa patrizia, contea.
Alla attaccatura del gran seno, come un gioiello che un
tempo aveva ornato la deliziosa poitrine
di una damina di 17 anni, Mariéta - conosciuta e sposata 30 anni prima e
compianta da 5 - il Conte aveva voluto la cappellina, non voto per il recupero
della salute, ma come ringraziamento per avere rivisto il contino tornare dalla
campagna di guerra con un solo sfregio nel braccio e un mascolino graffio nel
viso, frutto della stessa spada, parata con efficacia in un duello con un gran
cavalieraccio tedesco così ubriaco, bianco e porpora da assomigliare ad un gran
formaggio di vacca affinato nella vinaccia.
“Capisce Signor De Polis? Non è per me, che ho 53 anni e ho
già cavalcato tanto, se non troppo. Non è per me, mi creda, la cappellina. Non
si dona per chiedere a Dio, si dona per ringraziarlo della sua infinita bontà”.
“Oh, Signor Conte” rispose il nero dottore, agitando il
fazzoletto usato per detergersi dal sudore della fronte e allontanare un tafano
testardo “non me ne voglia, non me ne voglia, mi perdoni se ho usato parole che
volevano solo compiacerla …”
“Monsù De Polis … Signor De Polis, non si faccia dei
problemi, l’ho capito” Lo interruppe il conte con un sorriso sotto i baffi
incerati a ricciolo – il medico con il suo impacciato tentativo di piacergli lo
rallegrava – “sono un umile gentiluomo di campagna, ma conosco il genere umano
e distinguo le intenzioni delle persone!”.
“Oh, la ringrazio, Sua Grazia, la ringrazio della sua
bontà …e - emh emh - a chi la vorrà dedicare?” “A San Luigi, monsù De Polis, A
San Luigi Gonzaga” e un pensiero di affetto andò all’antico casato dei Gonzaga
che aveva rafforzato la sua famiglia su quella terra. “Eh! I Gonzaga, non erano solo
santi: ma gente pratica, allevatori di cavalli, gente con i piedi per terra,
imitatori di nessuno, protettori della arti, costruttori di Casale … gente
coraggiosa, se non fosse per quel piciu
di Ferdinando Carlo!”, come usava dire dell'ultimo Duca di Mantova e del Monferrato, più appassionato di cavalli e di donne che di reggere i suoi potentati.
(segue)
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