(Secondo movimento del concerto per Liuto. Non la migliore interpretazione in assoluto, ma la migliore su Youtube, ed eseguita con un signor Chitarrone o Liuto attiorbiato.)
“Ciarea
Serafina, ven dausin, 'me qu’a và?”
La contadina aveva alzato gli occhi, ma incontrando lo
sguardo del nero compagno che accompagnava il suo signore, ristette, ribassando
la testa.
“Sta
tranquila, l’è l’me dutur … ven … ven!”
Ma la riassicurazione diede l’effetto opposto: un’ombra di
terrore si dipinse sul viso della contadina, fece un passo indietro, come per
scappare.
“Frama, Fina!
Ven qui. Qu’a qu’a iè?” Scattò l’ordine. Suo malgrado la contadina si
avvicinò lentamente a testa bassa. E sempre a testa china parlò.
“Mè
S'gnur, buon S'gnur … Çuilì l'è par chil” e gli porse l’involto, questa volta
alzando il viso, con un gesto insolito per la servitù. La donna era grande
vista da vicino, la testa arrivava al garrese del norico del conte. Ben più
alta di un uomo, più di 6 palmi, spigolosa. Le mani che tenevano il fagotto
candido erano grandi e nodose; mani di donne che lavorano nei campi, ma erano
pulite, come pulito era il viso abbronzato, notò il dottore, con quel colore
dorato dei biondi: attorno agli occhi piccole rughe, da donna matura, ma la
pelle non era ancora rovinata. Il dottore stimò che avesse circa 30 anni: una
donna ormai fatta, anzi una vedova, da quello che aveva appreso. Serafina aveva
gli occhi grigi-azzurri, un po’ incavati di quelli che sanno cos’è la fame. Ed
erano occhi tristi.
Il grosso involto emetteva un fruscio e crocchiò tra le
grosse mani del Conte, che capì e lo portò al naso, aspirando con avidità. “Ah, Fina, bùn!”.
Voltandosi leggermente verso il dottore, il Conte aprì
l’involto e dentro trovò quattro sacchetti più piccoli, cuciti con filo grosso.
Tirando con l’indice la chiusura di un sacchetto comparvero foglie e fiori
secchi.
“Biancuspin,S'gnur.
Ne fass n'infus a la saria quan ch'al disa al rusari” All’idea di
dire il rosario al conte venne da sorridere.
“Qu’a qu'al
serva?”
“Quand che la noeucc at venn 'l fiatun e la
'gitasiùn, S’gnur”.
“Ma…!” Esclamo il dottore più sorpreso dalla precisione
della contadina che dall’offesa al suo mestiere, ma un taglio rapido della mano
del Conte verso di lui lo mise a tacere istantaneamente.
“E 'si qui
qu’a qu’a jen, Serafina?”
“Frasu, S’gnur,
e qu’la pianta bianca, betùla: para la gotta. Par piela al matin quand chi suna
l'campanun ad San Martin”.
“E Tillio”
conoscendolo bene il conte non ebbe dubbi, e tirando fuori il
sacchetto ne aspirò il profumo dei fiori seccati a perfezione dalla contadina.
Un ricordo di infanzia, di prima estate, di corse con i cani nel viale di tigli
della villa dov’era cresciuto, lo prese al cuore.
“Si, S’gnur
Conte, par droemi ben … che la Madonna, nostra S’gnura, prutegia al sogn”.
E fece un inchino, tirando la gonna e con l’altra indicando la grossa pianta di
tiglio alle sue spalle, ronzante di api, di bombi e coperta di brattee gialle
con i frutticini ormai secchi di luglio. Il tiglio frusciò leggermente ad un
colpo di vento , come per rispondere al saluto della sua cultrice. Il tiglio
era a quei tempi spesso associato al culto della Madonna e Serafina lo teneva
in gran conto per le sue proprietà, il suo profumo e la meravigliosa ombra che
faceva su quella sella secca ed esposta al sole.
“Serafina…”. Il conte non ringraziò e si trattenne dal
farlo, perché sarebbe stato sconveniente per i rapporti tra due persone di ceti
così distanti. Ma lui si sentiva il padre di quella gente e il tono del suo
riconoscimento voleva che giungesse esattamente come un grazie. Così, dal
panciotto trasse una piccolissima moneta che le diede ponendola sulla
mano che prontamente la grande donna gli tese. E così, la donna, finalmente,
sorrise: il viso si era illuminato e gli occhi erano brillanti di felicità.
Pane, abiti, chissà cosa voleva dire quel piccolo tondo. Accostando le mani al
corpo si fermò con i palmi raccolti sotto il viso, che manteneva fisso sul suo
padrone.
Occhi troppo fermi. Troppo chiari.
Lo sguardo mise a disagio il Conte.
“Vai Serafina, e portamene altre”. Bruscamente il
Conte spronò il cavallo, non sapendo più che dire e in imbarazzo per quella
felicità. “Il popolo è senza senno, senza
sentimento, senza memoria, piagnucoloso, ringrazia per forma, ma ti sgozzerebbe
nel buio. Si getta sul denaro, si ammazza. Senza misura” Annotò mentalmente
il conte “Lei no. Donna strana”. E
rimuginò in silenzio, seguito dal trasecolato dottore. (Segue)
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