Raccolta dei documenti della ristrutturazione

Il blog per raccogliere la storia della ristrutturazione della "Cà d'la Lunga" a Corteranzo, con foto, idee e documenti utili per chiarire cosa vogliamo realizzare.

sabato 11 maggio 2013

7. La Serafina

(Secondo movimento del concerto per Liuto. Non la migliore interpretazione in assoluto, ma la migliore su Youtube, ed eseguita con un signor Chitarrone o Liuto attiorbiato.)
Passo dopo passo, erano quasi giunti , percorrendo il viottolo in leggera salita, al colmo della sella. La donna era rientrata nella casupola ed uscita con un involto di lino; da svelta che dapprima si muoveva, prendendo la direzione perpendicolare al viottolo e al tragitto del conte, ora si era fermata, incerta, e a capo chino aveva percorso il breve tratto che la separava dai due cavalieri, fermandosi a rispettosa distanza.
“Ciarea Serafina, ven dausin, 'me qu’a và?”
La contadina aveva alzato gli occhi, ma incontrando lo sguardo del nero compagno che accompagnava il suo signore, ristette, ribassando la testa.
“Sta tranquila, l’è l’me dutur … ven … ven!”
Ma la riassicurazione diede l’effetto opposto: un’ombra di terrore si dipinse sul viso della contadina, fece un passo indietro, come per scappare.
“Frama, Fina! Ven qui. Qu’a qu’a iè?” Scattò l’ordine. Suo malgrado la contadina si avvicinò lentamente a testa bassa. E sempre a testa china parlò.
“Mè S'gnur, buon S'gnur … Çuilì l'è par chil” e gli porse l’involto, questa volta alzando il viso, con un gesto insolito per la servitù. La donna era grande vista da vicino, la testa arrivava al garrese del norico del conte. Ben più alta di un uomo, più di 6 palmi, spigolosa. Le mani che tenevano il fagotto candido erano grandi e nodose; mani di donne che lavorano nei campi, ma erano pulite, come pulito era il viso abbronzato, notò il dottore, con quel colore dorato dei biondi: attorno agli occhi piccole rughe, da donna matura, ma la pelle non era ancora rovinata. Il dottore stimò che avesse circa 30 anni: una donna ormai fatta, anzi una vedova, da quello che aveva appreso. Serafina aveva gli occhi grigi-azzurri, un po’ incavati di quelli che sanno cos’è la fame. Ed erano occhi tristi.
Il grosso involto emetteva un fruscio e crocchiò tra le grosse mani del Conte, che capì e lo portò al naso, aspirando con avidità. “Ah, Fina, bùn!”.
Voltandosi leggermente verso il dottore, il Conte aprì l’involto e dentro trovò quattro sacchetti più piccoli, cuciti con filo grosso. Tirando con l’indice la chiusura di un sacchetto comparvero foglie e fiori secchi.
“Biancuspin,S'gnur. Ne fass n'infus a la saria quan ch'al disa al rusari” All’idea di dire il rosario al conte venne da sorridere.
“Qu’a qu'al serva?”
 “Quand che la noeucc at venn 'l fiatun e la 'gitasiùn, S’gnur”.
“Ma…!” Esclamo il dottore più sorpreso dalla precisione della contadina che dall’offesa al suo mestiere, ma un taglio rapido della mano del Conte verso di lui lo mise a tacere istantaneamente.
“E 'si qui qu’a qu’a jen, Serafina?”
“Frasu, S’gnur, e qu’la pianta bianca, betùla: para la gotta. Par piela al matin quand chi suna l'campanun ad San Martin”.
“E Tillio” conoscendolo bene il conte non ebbe dubbi, e tirando fuori il sacchetto ne aspirò il profumo dei fiori seccati a perfezione dalla contadina. Un ricordo di infanzia, di prima estate, di corse con i cani nel viale di tigli della villa dov’era cresciuto, lo prese al cuore.
“Si, S’gnur Conte, par droemi ben … che la Madonna, nostra S’gnura, prutegia al sogn”. E fece un inchino, tirando la gonna e con l’altra indicando la grossa pianta di tiglio alle sue spalle, ronzante di api, di bombi e coperta di brattee gialle con i frutticini ormai secchi di luglio. Il tiglio frusciò leggermente ad un colpo di vento , come per rispondere al saluto della sua cultrice. Il tiglio era a quei tempi spesso associato al culto della Madonna e Serafina lo teneva in gran conto per le sue proprietà, il suo profumo e la meravigliosa ombra che faceva su quella sella secca ed esposta al sole.
“Serafina…”. Il conte non ringraziò e si trattenne dal farlo, perché sarebbe stato sconveniente per i rapporti tra due persone di ceti così distanti. Ma lui si sentiva il padre di quella gente e il tono del suo riconoscimento voleva che giungesse esattamente come un grazie. Così, dal panciotto trasse una piccolissima moneta che le diede ponendola sulla mano che prontamente la grande donna gli tese. E così, la donna, finalmente, sorrise: il viso si era illuminato e gli occhi erano brillanti di felicità. Pane, abiti, chissà cosa voleva dire quel piccolo tondo. Accostando le mani al corpo si fermò con i palmi raccolti sotto il viso, che manteneva fisso sul suo padrone.
Occhi troppo fermi. Troppo chiari.
Lo sguardo mise a disagio il Conte.
“Vai Serafina, e portamene altre”. Bruscamente il Conte spronò il cavallo, non sapendo più che dire e in imbarazzo per quella felicità. “Il popolo è senza senno, senza sentimento, senza memoria, piagnucoloso, ringrazia per forma, ma ti sgozzerebbe nel buio. Si getta sul denaro, si ammazza. Senza misura” Annotò mentalmente il conte “Lei no. Donna strana”. E rimuginò in silenzio, seguito dal trasecolato dottore. 

(Segue)

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